un recentissimo arresto della cassazione ne indica i presupposti
Lo Studio ha ottenuto un’importante vittoria in Cassazione, nel procedimento contrassegnato da R.G. n. 1216/2024 (concluso con il provvedimento Cass., Ord. 28406/2025, non ancora pubblicata sulle varie banche dati giuridiche), sul tema della responsabilità dell’avvocato, assistendo un cliente che lamentava di aver subito gravi danni a causa ed in conseguenze delle scelte processuali del legale al quale si era rivolto per la tutela dei suoi interessi alla morte della madre.
Al momento del decesso della propria madre nulla residuava nell’attivo ereditario e pertanto il cliente, essendosi accorto che la sorella ed il cognato avevano messo in vendita la villa donatagli in vita dalla madre (si badi: donatagli con contratto di compravendita a prezzo irrisorio), incaricava il legale di tutelare i suoi interessi.
Quest’ultimo consigliava di introdurre un procedimento per sequestro giudiziario o conservativo dell’immobile – sia nei confronti del padre, che nei confronti della sorella e del cognato – e depositava il relativo ricorso in vista della proposizione di un’azione diretta a far accertare il carattere simulato del contratto di compravendita ed a far dichiarare la nullità, per difetto di forma, del contratto dissimulato di donazione, al fine di far rientrare nella (o di “imputare” alla) massa ereditaria il bene oggetto dell’invalido trasferimento.
Il tribunale adito, rilevato il difetto di legittimazione passiva del padre – per mancanza di conclusioni svolte nei suoi confronti – aveva reietto l’istanza di sequestro giudiziario – per mancanza del presupposto della controversia sulla proprietà o sul possesso del bene (sul rilievo che la prospettata azione di riduzione non poneva in dubbio la titolarità del bene ma mirava all’acquisizione del controvalore mediante ricorso al metodo dell’imputazione) – e quella di sequestro conservativo – per omessa deduzione del periculum in mora.
Il legale aveva allora suggerito di instaurare un giudizio «di riduzione e collazione», sottoposto ex lege alla condizione di procedibilità del previo esperimento della mediazione obbligatoria, la quale si era peraltro conclusa con verbale negativo, per mancata corrispondenza tra la proposta ricevuta in sede conciliativa e le maggiori aspettative ingenerate dalle erronee informazioni rese dal professionista, in base alle quali egli si era persuaso di avere diritto ad una quota di legittima molto maggiore di quella realmente spettante al cliente.
Revocato il mandato al precedente legale ed affidatosi ad altro professionista, il cliente vedeva poi accogliere la domanda di accertamento della lesione della sua quota di legittima nella misura correttamente indicata dal nuovo legale, con la conseguente condanna della sorella e del cognato a corrispondergli la somma corrispondente a detta quota, oltre interessi dalla data di apertura della successione al saldo.
Sulla base di queste deduzioni – ed evidenziato altresì che, in relazione al giudizio cautelare di sequestro, aveva sostenuto ingenti spese legali per il proprio professionista e quello della controparte, risultata vittoriosa, il cliente si rivolgeva allo Studio JP per ottenere, accertata la responsabilità professionale del primo legale, il risarcimento del danno così patito.
Emessa sentenza di accoglimento delle domande così formulate da parte del Tribunale di Verbania, il precedente legale del cliente appellava la sentenza.
La Corte d’Appello di Torino, in riforma della sentenza di primo grado, escludeva la responsabilità professionale del legale asserendo che tale responsabilità, ai sensi degli artt. 2236 e 1176, secondo comma, cod. civ., postula un’incuria o un’ignoranza di disposizioni di legge o, più in generale, una negligenza od imperizia idonee a compromettere il buon esito del giudizio, non riscontrabili nell’ipotesi di interpretazioni di leggi o di risoluzione di questioni opinabili, salva, in tal caso, la prova del dolo o della colpa grave del professionista, nella specie insussistenti.
La sentenza di secondo grado veniva impugnata avanti alla Suprema Corte.
In accoglimento del ricorso proposto contro la sentenza di secondo grado da JP Studio, la Suprema Corte, sez. III, dopo aver rammentato che “costituisce ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui l’avvocato, i cui obblighi professionali sono di mezzi e non di risultato, è tenuto ad operare con diligenza e perizia adeguate alla contingenza, così da assicurare che la scelta professionale cada sulla soluzione che meglio tuteli il cliente, ovverosia sull’adozione di mezzi difensivi che non solo non risultino pregiudizievoli per il cliente medesimo, ma si rivelino come i più adeguati rispetto al raggiungimento del risultato perseguito. Inoltre, il professionista, ove una soluzione giuridica, pure opinabile ed eventualmente da lui non condivisa e convintamente ritenuta ingiusta ed errata, sia stata tuttavia affermata dalla giurisprudenza consolidata, non è esentato dal tenerne conto per porre in essere una linea difensiva volta a scongiurare le conseguenze, sfavorevoli per il proprio assistito, derivanti dalla prevedibile applicazione dell’orientamento ermeneutico da cui pur dissente (cfr. Cass. 21/07/2023, n. 21953; Cass. 28/02/2014, n. 4790; v anche Cass. 24/04/2023, n. 10864, non massimata sul punto)”, ha rilevato che, nella sentenza impugnata la Corte di merito non si era attenuta a questi principi.
La Cassazione ha, infatti, sottolineato che “nell’esprimere il necessario giudizio di adeguatezza ed idoneità del mezzo difensivo prescelto rispetto al risultato perseguito, ha omesso di considerare il carattere del tutto eccentrico della scelta effettuata (proposizione di un ricorso per sequestro giudiziario o conservativo propedeutico ad un’azione di simulazione relativa della vendita e di nullità, per difetto di forma, della donazione dissimulata) in relazione al rimedio (azione di riduzione: artt. 533 ss. cod. civ.) ordinariamente previsto dall’ordinamento per la reintegrazione della quota di riserva dei legittimari rispetto alle donazioni eccedenti la quota disponibile poste in essere dal de cuius; rimedio che era stato, poi, pianamente ed efficacemente esperito dal professionista officiato dal sig. [omissis] dopo la revoca del mandato originariamente conferito all’Avv. [omissis], così ponendosi fine al pregiudizievole ritardo nella tutela del diritto del cliente determinato dalla condotta del primo professionista.
In secondo luogo, nel valutare positivamente l’astratta sussistenza dei presupposti del provvedimento cautelare richiesto, la Corte territoriale ha fatto riferimento ad un indirizzo della giurisprudenza di legittimità risalente e minoritario, pur dando atto della sussistenza di un più recente (e prevalente) orientamento di segno contrario. In proposito, va rilevato che l’indirizzo richiamato dal giudice d’appello per giustificare il contegno professionale è risalente nel tempo … e si è successivamente consolidato, sino ad integrare una situazione di “diritto vivente”, il contrario orientamento secondo cui, per la validità delle donazioni indirette, cioè di quelle liberalità realizzate ponendo in essere un negozio tipico diverso da quello previsto dall’art. 782 cod. civ., non è in alcun caso richiesta la forma dell’atto pubblico – e men che meno la presenza di testimoni ai sensi dell’art. 48 della L. 89/1913 (legge notarile), essendo sufficiente l’osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità, dato che l’art. 809 cod. civ., nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità adottati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 cod. civ., non richiama l’art. 782 cod. civ., che prescrive l’atto pubblico per la donazione (Cass. 21/01/2000, n. 642; Cass. 29/03/2001, n. 4623; Cass. 19/09/2003, n. 13863; Cass. 16/03/2004, n. 5333; Cass. 7/06/2006, n.13337; Cass. 30/01/2007, n. 1955; Cass. 2/09/2009, n. 19099; Cass. 3/11/2009, n. 23297; Cass. 17/11/2010, n. 23215; Cass. 5/06/2013, n. 14197; di recente, cfr. Cass. 2/07/2024, , non richiama lart. 782 cod. civ., che prescrive latto pubblico per la donazione (Cass. 21/01/2000, n. 642; Cass. 29/03/2001, n. 4623; Cass. 19/09/2003, n. 13863; Cass. 16/03/2004, n. 5333; Cass. 7/06/2006, n.13337; Cass. 30/01/2007, n. 1955; Cass. 2/09/2009, n. 19099; Cass. 3/11/2009, n. 23297; Cass. 17/11/2010, n. 23215; Cass. 5/06/2013, n. 14197; di recente, cfr. Cass. 2/07/2024, n. 18098, non mass.). Erroneamente la Corte d‘Appello ha fondato il giudizio di merito di irresponsabilità dell’Avv. [omissis] sul rilievo della sussistenza, nella fattispecie, di questioni giuridiche opinabili, dal momento che, al contrario, la scelta del professionista, lungi dal trovare fondamento in una tra le interpretazioni alternative parimenti plausibili, era stata basata su una soluzione giuridica definitivamente superata dalla giurisprudenza di legittimità e opposta a quella da tempo consolidatasi, sicché egli, non tenendo conto della incompatibilità del mezzo difensivo adottato con la regola di diritto vivente formatasi da quasi due decenni, aveva inopinatamente posto in essere una strategia processuale verosimilmente destinata a produrre, per il proprio assistito, le conseguenze sfavorevoli derivanti dal prevalso orientamento ermeneutico, contrario a quello posto a fondamento del provvedimento invocato” [Cass. Civ. Sez. III, ud. 17.09.2025, Ord. 28406/2025].
Pertanto, il dovere di diligenza che l’avvocato deve impiegare nell’espletamento del suo mandato implica necessariamente che egli sappia scegliere il mezzo difensivo più idoneo alla tutela degli interessi del suo cliente e che lo metta al corrente dei rischi eventualmente connessi alla proposizione di un’azione, specie se, come nel caso in esame, sostenuta da dottrina o giurisprudenza minoritaria o superata.